lunedì 23 giugno 2008

Lauree brevi: dottori in meno tempo ma per il lavoro bisogna aspettare

Da pochi giorni sono finalmente finiti gli esami di Stato che verranno ricordati per la gaffe che il Ministero dell’Istruzione ha commesso nella redazione della traccia di italiano. La poesia “Ossi di seppia” sarebbe presa a spunto per sottolineare "il ruolo salvifico e consolatorio svolto dalla figura femminile", ma gli esperti la ritengono dedicata a un ballerino russo e dunque un uomo.
Ma messa da parte questa piccola parentesi circa mezzo milione di studenti italiani hanno affrontato l’ultimo traguardo che li vede allontanarsi dalla scuola dell’obbligo ed avvicinarsi al mondo del lavoro o alla difficile scelta del corso universitario da frequentare negli anni successivi.
La scelta si diceva è difficile, in seguito alla riforma universitaria del 1999, e l’istituzione della formula 3+2 e delle ormai famose lauree brevi si sono moltiplicati i corsi di laurea.
C'è il corso di studio in "Scienze sociali per lo sviluppo e la pace" e quello che specializza nella "schedatura del verde urbano". C'è la laurea che prepara in "Turismo alpino" e quella che educa alla "Teoria delle forme". Ci sono studenti che dovrebbero applicarsi allo studio di "Scienze equine" con tanto di corsi di equitazione in centri convenzionati. E corsi di laurea che promettono di formare in "Tecnologie del fitness".
Ma le lauree brevi hanno portato un effettivo miglioramento rispetto al vecchio sistema universitario? Siamo proprio sicuri che sia questa la strada giusta da seguire per l’Università italiana? È diventato realmente più semplice per i “dottorini” (i laureati dopo 3 anni) entrare da subito nel mondo del lavoro?
Come si vede tante sono le domande a cui bisogna dare una risposta, lo facciamo con l’aiuto dell’indagine 2007 sul profilo occupazionale dei laureati sviluppata da AlmaLaurea, il consorzio che riunisce quasi tutte le università del Paese.
Ripartiamo dunque dalle domande che ci eravamo posti. A nove anni dalla riforma universitaria, la "laurea breve" ha mantenuto le sue promesse?
Alcune, senz’altro: la riforma universitaria, introdotta con il decreto ministeriale 509 del 1999, è entrata a regime nell'anno accademico 2001/02. Cosa prevede? Un corso di laurea triennale, terminato il quale, lo studente può proseguire per altri due anni e ottenere la laurea specialistica. Obiettivo della riforma abbassare l'età dei laureati (28/30 anni, rispetto a una media Ue di 21), limitare i fuori-corso e porre un freno all'abbandono anticipato degli studi.
Obiettivo in gran parte centrato. Nell'anno accademico 2007/2008 gli iscritti ai corsi di laurea triennale sono stati un milione e 137mila: un dato pressoché stabile nel corso degli anni. Gli studenti sono in maggioranza donne (622mila), concentrati per lo più nel Nord Italia (circa 440mila studenti). Sono diminuiti poi coloro che abbandonano gli studi, tra il primo e il secondo anno lo ha fatto il 12,6% nel 2006/07 (erano oltre il 20% nell'anno accademico 2004/05). E ancora: oltre uno studente su tre (il 34,8%) si laurea regolarmente, mentre il 40,6% si laurea con solo un anno di ritardo. Anche qui la laurea breve sembra aver davvero funzionato, se si pensa che prima della riforma del '99 gli studenti in regola con i corsi erano meno del 10%.
Ma veniamo adesso alle note dolenti. Ciò che è mancato è una piena armonizzazione tra università e mondo del lavoro. Basta guardare i numeri: secondo l'indagine AlmaLaurea 2007 effettuata su 45 università italiane oltre il 63% degli studenti, terminati i tre anni, decide di iscriversi alla laurea specialistica. Solo così, infatti, può accedere a tutti gli albi professionali, partecipare ai concorsi pubblici ed essere preso in considerazione da ogni azienda. Tra chi si accontenta della laurea breve, solo il 27,4% trova lavoro, il 10% è disoccupato.
Grandi differenze si registrano poi tra i diversi corsi di laurea. Le aree più critiche? I laureati triennali in geologia che per esercitare hanno bisogno del titolo di secondo livello. Gli psicologi, che senza la specialistica non possono iscriversi all'albo. I laureati in lettere, che senza il biennio non possono insegnare. Gli ingegneri, anche se per loro è previsto un albo differenziato tra lauree brevi e specialistiche. Vi è poi il caso di Medicina, con un boom di "laureati brevi" che lavorano: ben il 94,1%. «Ma attenzione - avverte Andrea Cammelli, docente a Bologna e direttore del consorzio AlmaLaurea - in questo caso parliamo dei laureati nelle professioni sanitarie, diversi dunque dai medici tradizionali: sono per lo più persone con diplomi sanitari già acquisiti e che già lavoravano». Cammelli invita comunque alla cautela, perché «siamo di fronte a un'indagine solo a un anno dalla laurea, per questo non è facile fotografare la vera risposta del mondo del lavoro alle lauree brevi». E poi, «non va dimenticato che la riforma ha aumentato il numero degli studenti regolari e diminuito gli abbandoni, peccato solo che abbia anche drasticamente ridotto le esperienze di studio all'estero».
Facendo quindi un bilancio della situazione se è vero che la riforma ha avuto successo per quanto riguarda la percentuale degli abbandoni e l’abbassamento dell’età dei laureati, lo stesso non si può dire però per l’ingresso nel mondo del lavoro dei neo-dottori. È questo il nodo davvero cruciale. Se non si garantisce una reale integrazione tra università ed aziende del lavoro a cosa serve laurearsi in fretta se poi si deve perdere altro tempo posteggiati in bar, ristoranti o call center nell’attesa che il lavoro per cui si è studiato arrivi? Questo è la vera urgenza a cui una riforma universitaria dovrebbe mettere mano.
Alla fine di queste pagine ancora tanti, troppi, punti interrogativi…e non ci resta che concludere con: ai posteri l’ardua sentenza!

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